sabato 27 giugno 2009

Avanzo un'ipotesi: è fallito il leninismo e il... '68

di Gianni Marchetto – 10 Giugno 2009

Indice:

· La replica della storia
· Il fallimento del leninismo e del ‘68
· I cani di Pavlov e il libero arbitrio
· Da che cosa ripartire
· Un diverso uso del tempo
· Più democrazia è uguale a più produttività
· Lo statalismo del PCI e del PSI
· I migranti
· Due libri – ne manca uno
· I territori liberati
· Rivalutare Togliatti
· Aiuto!


Premessa

Queste note le ho redatte immediatamente dopo la (prevedibile) sconfitta elettorale di tutte le formazioni della sinistra. Sono idee che mi frullavano per la testa da parecchio tempo. Sono il tentativo (tutto personale) di trovare una ragione dello scacco subito. E non nego che ci sia da parte mia la ricerca di una sorta di consolazione. La prima parte è redatta in questi giorni, la seconda parte (Da che cosa ripartire) e la risistemazione di precedenti mie note.

La replica della storia

In fondo, in fondo, può essere che con questo voto si sia chiusa definitivamente una parentesi nella storia recente del popolo italiano (parlo degli ultimi 60 anni ca.). Capace che dica delle castronerie (vista la mia conoscenza della storia) ma a me pare che questo popolo è ritornato, (dalla caduta dell’impero romano), a quello che è sempre stato: un popolo di badanti e servitù al servizio non di principi e re potenti e illuminati, ma di castaldi, gabellieri, affaristi, ecc. Salvo forse per il Rinascimento italiano che aveva caratterizzato il Principato di Toscana con la nascita del primo capitalismo (finanziario) e la nascita delle botteghe artigiane, il resto d’Italia è sempre stato governato da gentucola (vedi i Savoia), quando non da reazionari come la presenza secolare della chiesa e le scorribande in lungo e in largo della penisola di potenze straniere.

Tanto per dire: in Italia non è mai successo nessun movimento rivoluzionario, la nostra è una borghesia di importazione e mentre nel tardo Medio Evo, Calvino e Lutero riformavano la religione cattolica mettendola a “servizio” della nascente borghesia (emancipando il lavoro a questione terrena dal “castigo divino” della chiesa cattolica), il papa di Roma con il Concilio di Trento faceva invece la “Controriforma”.

Gramsci in una sua nota dice: “la classe operaia porta con sé tutti i vizi della borghesia che la comanda”. Tutto detto nel rapporto con la nostra borghesia, antica e nuova. Quella antica che neanche era italiana. Al sud la prima industrializzazione venne fatta dagli inglesi. Al nord (nel settore laniero e tessile) da svizzeri, francesi e tedeschi. I nostri “borghesi” erano latifondisti, affaristi. Gli Agnelli furono essenzialmente capitalisti assistiti dal regime fascista prima e da quello democristiano poi. Ci sono splendide pagine di Gramsci sul Risorgimento Italiano, su i suoi limiti, ecc. per non dire quella nuova fatta dai Berluscones!

Stranieri in patria

Significa forse un giudizio sprezzante sul popolo italiano (di cui faccio anch’io parte)? Niente di tutto questo. Però aprire gli occhi e guardare alla realtà per quello che è, è un esercizio che ritengo sia necessario 1° per elaborare il lutto 2° per aprire di nuovo la parentesi ragionando sulle contraddizioni aperte. Già nei secoli passati ci sono stati tanti italiani che erano (e alcuni lo dicevano pure) “stranieri in patria”: da Dante, passando per il Petrarca. Da Leonardo da Vinci, a Galileo Galilei. Da Tommaso Moro a Leopardi, da Mazzini a Garibaldi ed un eccetera lunghissimo.

In fondo in fondo si è trattato di 3 generazioni (per stare all’ultimo secolo). La prima fatta di poche persone: da Sturzo a Gramsci, da Togliatti a Terracini a Nenni a Saragat da Gobetti ai fratelli Rosselli a Lusso a La Malfa a Pajetta a Amendola (padre e figlio), eccetera. Chi in galera, chi al confino, chi in esilio. Se non ci fosse stata la guerra, con il suo esito disastroso, chissà come sarebbe andata?
La seconda fatta da giovani operai e contadini (al nord) e da alcuni manipoli di borghesi che imbracciarono il fucile e andarono in montagna, pochi ma con larghe fasce di simpatia tra la gente che voleva farla finita con la guerra, mangiare e vivere in pace e nella libertà. Furono 3 o 4 anni gloriosi, durante la Resistenza e poco dopo. Dopo di che, di fronte all’attacco del padronato, quelli con la schiena dritta rimasero di nuovo pochini a resistere in fabbrica e aspettarono circa 20 anni (il famoso ’68 e ’69) per consegnare alla mia generazione il testimone. I nomi da me conosciuti sono: Pugno, Pace, Destefanis, Garavini, Trentin, Minucci, Oddone e un eccetera molto lungo fatto anche di socialisti e cattolici democratici.
La terza è fatta ancora da giovani “mescolati” tra etnie italiane le più diverse. È la mia generazione: portammo i diritti e il potere dei lavoratori nelle fabbriche e fummo i costruttori dello “stato sociale” italiano (anche se non del tutto finito, con le grandi venature di assistenzialismo che lo caratterizzano e la mancata universalità che lo caratterizza), che a differenza di altri paesi è stato una conquista frutto di lotte durissime.
A me pare che occorre avere consapevolezza del fatto che per un lungo periodo ci sia da considerarsi di nuovo come “stranieri in patria”. Avendo coscienza che nell’attuale contesto storico occorrerà definire la patria nella nuova realtà Europea. Direbbe De Gaulle: vasto programma!

Il fallimento del leninismo e del ‘68

E a sinistra non c’è nessuna colpa? Ci sono eccome: il leninismo e il ’68!

Sul leninismo nessuna demonizzazione, sia chiaro, però si può dire che fu una impostazione del partito politico (non solo comunista) che andava bene in una epoca (quella dei primi anni ’20) contraddistinta da masse enormi di persone e di proletariato nella quasi totalità non solo impreparato ma sostanzialmente analfabeta, in epoche di “ferro e di fuoco”, che avevano bisogno di una “avanguardia consapevole” (e votata al sacrificio aggiungo io). Ma come si può ora pensare che la situazione sia ancora quella. Non è in fondo leggere la storia come immutata, quasi che un secolo di lotte non abbia cambiato alcunché nella condizione degli sfruttati. A fronte del fatto di aver ossificato una schiera di “rivoluzionari di professione” (moderni sacerdoti, alla lunga cinici e quando è andata male corrotti) quando il tema “rivoluzione” (almeno quella con i fucili) non era più all’orizzonte. Ma ancora di più, quella del permanere di una divisione del lavoro tra il partito (detentore della coscienza di classe) e la classe che siccome sprovvista di coscienza, adatta solamente al solo “stimolo-risposta” di marca Pavloviana. Il crollo dei regimi dell’est avrebbe dovuto insegnarci qualche cosa. È vero, già nella metà degli anni ’60 nel PCI il leninismo non aveva più solo quelle caratteristiche, ma manteneva tutta la prosopopea di essere lui a dover sempre spiegare al colto e all’inclita come girava il mondo. Se vediamo oggi cos’è rimasto del leninismo mi vengono i brividi: si va da Kim il Sung II nella Corea del Nord, alla Cina Popolare, a Cuba. E nel nostro occidente ci sono le caricature del leninismo dell’attuale sinistra (anche quella moderata!).

Sul ’68 e ‘69 – grande fu la ribellione (meno male) e grande fu quel movimento che durò per oltre un decennio. Se avessimo dato retta ai nostri fratelli francesi (che guardavano con un certo disprezzo ai contenuti di quelle lotte e di quel movimento) avremmo durato come loro: un maggio! Emblematicamente la sconfitta porta la data dell’autunno dell’80, anche se ci fu un percorso di resistenza che durò per tutti gli anni ’80.

All’interno di quel movimento si vennero a scontrare “due linee” e questo in modo trasversale in tutti i partiti del movimento operaio, in tutte le formazioni e in tutti i sindacati. La prima era in continuità con il “leninismo” – anzi in alcune formazioni era la teoria marx-leninista che la faceva da padrone. La seconda era invece il superamento del leninismo: era la “validazione consensuale” (rendere valido con il consenso). Così come si andò al superamento della divisione tra chi deteneva la coscienza di classe (il partito) e chi no (i lavoratori). Così già nel 1972 al convegno dell’Istituto Gramsci su “Scienza e organizzazione del lavoro” Ivar Oddone scandalizzava la presidenza del convegno con il ragionamento che portava a conforto della sua tesi: “con la nascita dei Delegati di Gruppo Omogeneo, la contrattazione articolata e tutte le forme di controllo e di potere che ciò si tira dietro, la coscienza di classe non è più solo appannaggio del partito politico che la trasferisce alla classe, ma si costruisce anche attraverso altre strade e altri confronti con altri “intellettuali”, diversi dagli “organici” al partito”.

C’è stata la sconfitta dell’80 e a differenza di quella degli anni ’50 sono ancora ad attendere una riflessione critica e autocritica su quegli anni. Non si va da nessuna parte rimuovendo e basta. Sostenendo che gli anni ’70 furono solo “cortei e pestaggi dei capi squadra” quando solo gli anni bui del terrorismo. Ci furono questi e quello ma ci furono anche altre cose che andrebbero filtrate per ricavarne degli insegnamenti anche per l’oggi, sicuri del fatto che chi non pianifica il proprio passato non sa progettare il proprio futuro. Il sottoscritto, che ancora adesso qualche rigurgito di leninismo lo ha ancora, militava per la linea della “validazione consensuale”. Devo dire però che con la sconfitta dell’80 venne sconfitta anche la mia linea: quella della partecipazione al cambiamento. Ma per ambedue le linee si tratta di rendersi conto del loro fallimento: ergo del fallimento di una generazione – la mia. Che non è stata capace di consegnare il “testimone” che ci era stato consegnato dalla generazione precedente. Era un testimone di interpretazione della realtà e di saper fare.

I cani di Pavlov e il libero arbitrio

Gli uomini e le donne vanno presi sul serio, non con questo atteggiamento molto paternalistico che invece vedo nella sinistra (ed è una cosa molto antica). Per cui ne viene che le persone ce le raffiguriamo come i cani di Pavlov, i quali sono usi a comportarsi unicamente sotto uno stimolo-risposta. E no, l’uomo non funziona così. Il meglio della psicologia americana da me letta (vedi il bel libro “Piani e struttura del comportamento” di Miller, Gallanter, Phibram - ed. Boringhieri) è un esempio molto illuminante di come funziona il nostro cervello.

A questo proposito si può fare l’esempio di chi lotta e chi no. Se uno lavora in un reparto dove tutti fanno i crumiri, il nostro tendenzialmente sarà portato ad imitare tali comportamenti così come se nel suo reparto c’è una forte solidarietà e spirito di lotta sarà portato ad imitare tali comportamenti. Ed è pur vero che di fronte alla partecipazione e alla lotta c’è innanzi tutto una responsabilità del tutto personale nel parteciparvi o meno. Però se è vero che il Comportamento umano è funzione dell’Ambiente che lo circonda (C = f A) e se una persona non è assimilabile ai cani di Pavlov, quindi non vale il solo “stimolo-risposta” ma che avendo delle Informazioni adeguate può cambiare il suo Piano di comportamento e quindi modificare l’Ambiente che lo circonda (in questo caso fatto di uomini e donne), c’è da chiedersi quali Risorse di tempo, di informazione e formazione, di esempi postivi da imitare, ecc. noi abbiamo dato a quelle persone (o quelle persone autonomamente si sono prese) per cambiare il loro comportamento di partecipazione e di lotta e quindi di poter influenzare con gli argomenti e con il proprio esempio il comportamento degli altri (I+P+R).

In pratica per gli umani vale il ragionamento del “libero arbitrio”, almeno così come è inteso dai credenti. Per Gramsci vale il ragionamento dell’”uomo che non può non sapere”. Questa storia del libero arbitrio la si può declinare diversamente: in chi addestra e in chi redime. Negli anni ’30 negli USA nacque una sorta di pensiero (padronale) che diceva che gli operai erano dei gorilla da addestrare per la produzione, per contro Ivar Oddone nei primi anni ’70 mi disse così che per gran parte della sinistra italiana gli operai non erano dei gorilla da addestrare per la produzione ma bensì da redimere per la rivoluzione… (rivoluzione di chi? dei redentori, ovviamente)… e gli operai? sempre gorilla rimanevano!

A me pare che qui stia il nocciolo della questione. Il problema vale anche per il comportamento elettorale.

Delle contraddizioni

Il compagno Mao, mi pare nel 1949, faceva delle lezioni ai compagni sul tema “delle contraddizioni”. Affermava che un conto erano le contraddizioni principali tra il capitale e il lavoro che sono insanabili anche quando interviene un compromesso il quale è proprio la sanzione della insanabilità. Un altro conto sono le “contraddizioni in seno al popolo” che non sono affatto insanabili e anzi con il tempo, il lavoro di convincimento e gli esempi positivi si possono sanare. Giustamente occorre fare cenno ad una delle contraddizioni del recente voto: le aspettative dei nostri avversari e il risultato del voto. Si dice (giustamente) che esiste al proposito una contraddizione “oggettiva”, che lascia spazi aperti sia sul versante nazionale che in quello europeo. In parte è vero, ma solo in parte, perché il Partito Popolare Europeo in molti paesi ha già cambiato pelle (per non parlare del nostro, il PdL, intriso di nazionalismo e populismo). Io non mi faccio eccessive illusioni neanche di fronte alle difficoltà del Berlusca derivante dai suoi comportamenti privati: una alternativa al Berlusca c’è, si tratti di Letta o di Fini e comunque il “berlusconismo” è una mala pianta che si è radicata in profondità nella “cultura” di questo popolo. Altrettanto vero che questa è una delle “contraddizioni in seno al popolo”.

Comunque, perché scorgere solo questa contraddizione, e non invece altre ben più corpose e insanabili? Vediamone alcune:

- Il rapporto tra il capitale e il lavoro: si sta tornando (quando per alcune fasce di lavoratori è già così) al lavoro servile. Altro che il (mio) superamento della divisione del lavoro e un uso del tempo umanizzato!
- Il rapporto tra l’uomo e la natura (che altro non è che il rapporto con se stesso): lo scasso è evidente – la coazione a ripetere sempre le stesse produzioni, fino ad averne troppe e non sapere cosa farne, e pensare di distruggerle oggi con la crisi, domani magari con… la guerra, sempre di più… e in culo a tutto.
- Il rapporto tra l’uomo e la donna: se le donne vogliono emergere devono per forza somigliare a noi uomini, quando non fare le veline (o le troie) o ancora occuparsi della riproduzione in scala familiare di quello che lascia per strada lo sfascio dello stato sociale.
- Il rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri: una minoranza di persone che si mangia la quasi totalità della torta a disposizione e poi strepita allarmata perchè i poveri (non i poverissimi) tentano anche loro di venire qui ad assaggiarne una fetta, visto che la torta sta essenzialmente qui.
- E potrei continuare…

La rivoluzione contro il capitale

Questa storia delle contraddizioni, principali e secondarie la si può declinare nelle contraddizioni oggettive e soggettive. Di quella oggettiva ne hai parlato tu e ripeto esiste. Ma esiste eccome anche quella di carattere “soggettivo”, intesa come l’assenza o l’incapacità del soggetto (una volta si sarebbe detto, rivoluzionario) ad avere un progetto di cambiamento all’altezza dei problemi che la crisi mette sul piatto, ingigantita dalla divisione interna al “soggetto” stesso, eccetera. Altra cosa fu invece la contraddizione (tutta positiva) che si presentò ai bolscevichi con la rivoluzione d’ottobre: c’era la guerra (da far finire), la fame, una aristocrazia (e una borghesia) sconfitta, un movimento privo di disciplina e il “soggetto rivoluzionario” forzò la storia, proprio sull’anello debole della catena: la Russia. Quel tanto che Gramsci in un articolo sull’Ordine Nuovo del ’19 parlò della “Rivoluzione contro il Capitale”, inteso questo come il Capitale di Marx. Una forzatura che poi si pagò, ma che nulla toglie al fatto di riconoscere la capacità degli uomini di “fare la storia” nel senso che il futuro è nelle loro mani, niente è già scritto.

Il soggetto riformatore (una volta si sarebbe detto rivoluzionario)

Chi è e come sta? È più di uno e non sta bene! Per farne una analisi più che abborracciata userò la chiave di lettura derivante dallo scorgere dove stanno i “giacimenti del saper fare”. Una volta questi giacimenti stavano per la stragrande maggioranza nel PCI (a livello di militanti e di delegazioni negli Enti locali fino al Parlamento), nelle sue propaggini collaterali: ARCI, Cooperazione, Artigiani e Commercianti (di sinistra), Sindacato (anche se con una notevole autonomia), ecc. per non dire altrettanti giacimenti di saper fare nella compagine cattolica nella Dc e nel mondo delle associazioni ad essa collaterali. I risultati di decenni di “saper fare” sono sotto ai nostri occhi. Nei luoghi di lavoro per oltre un decennio attraverso la presenza democratica dei diritti e del potere dei lavoratori. Negli Enti Locali attraverso un processo di civilizzazione dell’Italia. Nei luoghi di produzione della cultura: cinema, case editrici, giornali, ecc. Ovviamente in alleanza con altri soggetti (socialisti, cattolici democratici, ecc.).

La competizione: chi vince, chi perde

Oggi, ormai da ca. 20 anni. Siamo d’accordo che in una competizione (politica-sociale) non ideologica, come l’attuale non ci sono più, almeno nell’immaginario collettivo, due società che si confrontano, il socialismo e la società dei consumi capitalista, che vedevano appunto due formazioni avverse l’una all’altra: la DC e il PCI. Vincono quelle forze che sanno mettere in campo la maggior messe di “saper fare”, ergo: vincono i più motivati, coloro i quali (a torto o a ragione) sono convinti di essere portatori di un “saper fare”, contro invece i professionisti della chiacchiera (magari colta, ma sempre chiacchiera)? È vero o no che in fondo in fondo ciò che si confrontano sempre da oltre un decennio a questa parte sono due forme di “disprezzo” che ha sostituito l’avversione, che però significava il rispetto per l’avversario. In pratica ora si confronta il nostro disprezzo nei confronti 1° dei buzzurri della lega e 2° degli incolti, affaristi di Berlusconi, ma anche il loro disprezzo per le nostre chiacchiere, motivato (forse giustamente) da una critica al nostro elitarismo, alla nostra puzza sotto il naso nell’avere a che fare con il “popolo”. E con 56.000 voti nella provincia di Torino a Sinistra e Libertà (oltre 30.000 in provincia e il rimanente a Torino) non si fa molta strada, neanche sommando i voti di Rifondazione Comunista e soci non si va oltre i 120.00. Che grande abbaglio abbiamo preso nell’aver smarrito per strada quell’opera di “pedagogia sociale” che aveva contraddistinto la sinistra nel nostro paese. Ciò vale anche per le formazioni uscite dalla DC.

Vediamo ora dove sono questi “giacimenti di saper fare” (almeno nella sinistra). Il più grosso sta nell’attuale PD, sostanzialmente è negli eletti nelle assemblee elettive degli Enti Locali. È la risultante di anni e anni di insediamento in queste assemblee. Problema è che a forza di starci si è (comprensibilmente e anche giustificatamente), professionalizzato. Nell’ultimo decennio (e forse un po’ di più) ha perso per strada due qualità: l’altruismo e la generosità e in parecchi ha acquisito una buona dose di cinismo, perdendo per questa via la capacità (e la pazienza) di ascoltare la società, i problemi le contraddizioni, visto poi la quasi totalità di assenza dai luoghi dove si formano le opinioni: le aziende, le scuole, ecc. con una attenzione più che spasmodica (e sbagliata) alla sola presenza nella televisione, delegando a solo questo strumento la diffusione delle sue idee, quando se vuoi la fiducia delle persone devi saper metterti in gioco con le tue emozioni. Uno straniero (e anche l’italico) ha bisogno di odorarti, di sentire la tua voce dal vivo, se no … ciccia!. Se questo è il fenomeno che ha investito il meglio del corpo militante figuriamoci le “propaggini collaterali” da sempre il serbatoio dei suoi “trombati”. Che futuro è probabile: se l’insediamento maggiore e privilegiato sono le amministrazioni e se il trend è quello che viene fuori dalle ultime elezioni, il futuro nel breve e medio termine è facile da intuirsi …

Come sta il soggetto “radicale”? è (forse) meno cinico, con scarso “saper fare” e si caratterizza al massimo come “coscienza critica”: è sempre dedito alla interpretazione con una carica di moralismo che alla fine stufa. È dedito quasi unicamente alla produzione di “eventi” quasi del tutto sganciati da qualsiasi piano di lavoro, provvisto quindi di obiettivi da realizzare. Il campione di questa sequela di eventi è stato senza dubbio Fausto Bertinotti, che ha prodotto oltre Sorel, una visione quasi estetica della lotta di classe: la manifestazione a Roma, lo sciopero generale nazionale. E mi sa tanto (il soggetto) che gode a essere sempre diviso e combattente non con il suo avversario di classe ma con il suo vicino di casa. Facendo così il contrario di quello che Marx diceva: “compito dei filosofi (e degli individui socialmente attivi) non è quello di interpretare il mondo, ma di cambiarlo”. È nella proposta di cambiamento, quando nel cambiamento stesso, che c’è il test decisivo: se hai azzeccato o meno nella analisi e nella proposta di cambiamento! Sapere al millimetro come gira il mondo e non avere niente per cambiarlo è sul serio una magra consolazione.

Diverso è invece il giacimento presente nella CGIL. Anche qui c’è stato un processo di “professionalizzazione”, però tutta di rimessa, sotto l’attacco dell’avversario e della crisi. Si sconta qui la maggior rottura di continuità dell’esperienza della mia generazione con le attuali.

In pratica i nostri giacimenti sono quasi tutti esauriti. Si potrebbe benissimo a questo punto fare le pulci a tutti coloro i quali sono stati possessori e guardiani di detti giacimenti per evidenziarne responsabilità e colpe. Ma questo è un ragionamento che non aggiungerebbe neanche un ette alla situazione prima descritta.

Cosa sappiamo fare ciascuno di noi e gli amici e i compagni che conosciamo? Non solo le nostre opinioni, ma anche il nostro saper fare da mettere a disposizioni di altri, magari più giovani e collocati in “trincea”, dove avrebbero bisogno come il pane di una esperienza e di una scienza che possa dare fiducia e possibilmente imitazione positiva nel fare la loro esperienza? E sì che la situazione “oggettiva” non è mai stata a noi così favorevole: l’attuale forma del capitalismo (il liberismo) è in crisi totale. Vedi i liberisti di ieri diventare ad un tratto Keynesiani, alcuni con una rivalutazione nelle cose che fanno: l’intervento dello stato alla maniera socialdemocratica. Però noi siamo “esauriti”!

È morto il re – w il re!

· Ne verrebbe dalla lettura dell’esaurimento che non c’è più trippa per gatti ed è meglio andare per boschi. Invece trippa per gatti ce n’è ancora e forse molta. Problema è che non conosciamo dov’è, chi la possiede, come la pensa su di noi e sul mondo. Però c’è!

DA CHE COSA RIPARTIRE

In prima battuta occorre definire per quali soggetti, e nelle priorità di definizione io indico un primo terreno "revisionista". I soggetti privilegiati devono essere innanzi tutto noi, qui a Torino, poi viene il resto del mondo. Voglio dire che la condizione di avere un "progetto di cura" per gli altri sta in piedi se "si ha cura di se stessi". Avere cura di se stessi, per me vuole dire studiare la realtà e la dottrina - pretendere grande rigore evitando brutte copie di partito e di sindacato. Con molta modestia credo che già nei posti dove ciascuno opera possa esercitare un discreto orientamento.

La condizione è che si parta dal riconoscimento di una comunità scientifica allargata, cioè che le capacità di "problem solving", non risiedono unicamente nella testa degli "esperti tecnici" della comunità scientifica tradizionale (tra i quali anche i politici di professione), ma nell'agire sociale è presente a tutti i livelli un altro esperto "grezzo", ricco di capacità e competenze, al quale va dedicata attenzione e riconoscimento. Un soggetto provvisto di una Immagine e di un Piano che muta quotidianamente la porzione di mondo che sta di fronte a lui. Si tratta in ultima analisi di mettere a confronto con pari dignità "esperienza e scienza". Su tematiche definite e anche su obiettivi modesti.

Un’opera di revisionismo

Prima di entrare nel merito di alcune aree tematiche di iniziativa, occorre a mio modo di vedere, mettere in agenda una serie di questioni di grande spessore anche ideologico a cui dedicare tempo di studio, discussione, confronto, ecc.

I comunisti e il potere

·Da Lenin a Gramsci al PCI di Togliatti e seguenti. Mi pare ci siano nodi di teoria e di prassi da revisionare con molta determinazione. Si può osservare che una pratica comunista non partecipata ha creato mostri o disillusioni immense, sia nei paesi dell’Est che nelle pratiche “governative” all’ovest. Al proposito si potrebbe tentare una tesi e cioè che il comunismo o è fondato sulla non delega o non è. Ovvero è talmente una idea mobilitante che non sopporta mediazioni delegate che escludono l’esperienza diretta dei partecipanti.

I problemi della divisione del lavoro negli anni 2000

Per certi versi questa questione si intreccia con la prima, con una accentuazione che non riguarda solo il mondo tecnico della produzione (come in maniera riduzionistica è passato nel tempo), ma anche il terreno della formazione e della cultura. In prima battuta nel nostro paese vi è da verificare il limite “togliattiano” di una certa lettura del Gramsci più moderno e più “torinese”, quello che si interroga sul capitalismo americano per intenderci (vedi il libro di Minucci), mentre il Gramsci più conosciuto è solo quello storicista e umanista. Per intenderci se c’è una possibilità di riscrivere una sorta di moderno “Americanismo e fordismo”.

Un diverso uso del tempo

Io così ragiono oggi, rispetto anche alla riduzione di orario di lavoro. Non mi entusiasma più di tanto la RO a 35 ore perché rimane tutta in una logica industrialista. Un diverso e innovato uso del tempo che tenti di andare oltre la divisione storica del lavoro produttivo e riproduttivo (che in ultima analisi è anche gran parte della divisione del lavoro tra uomo e donna). Certamente vanno battute (o comunque va fatta resistenza) verso tutte quelle forme di riduzione di orario che tendono a ridurre la settimana con un allungamento della giornata lavorativa. Ne andrebbe della integrità psico-fisica dei lavoratori, nei fatti riducendo il lavoro al solo salario e il tempo "libero" dedicato al solo consumo. Sarebbe il trionfo del modello americano (in Italia!), costruendo un individuo sostanzialmente schizofrenico, che accetta un lavoro stupido ed eterodiretto in fabbrica, con una falsa possibilità di realizzarsi fuori. Quindi il problema di un superamento della divisione del lavoro continua ad esistere, anche e soprattutto nella fabbrica integrata, in quanto il nocciolo duro del Taylorismo, la divisione tra chi pensa e chi esegue, non viene minimamente scalfito. Invece vanno sperimentate tutte quelle forme di un diverso uso del tempo nella accezione che dicevo più sopra. La proposta:

· 20 ore di lavoro produttivo
· 8 ore di lavoro riproduttivo
· 8 ore di formazione, professionale e/o culturale

La scansione delle tre fette di orario risponde ciascuna ai problemi della società moderna. La prima (le 20 ore, con una ipotesi settimanale sui 5/6 giorni lavorativi), risponde alla necessità di ridistribuire il lavoro esistente. La seconda entra dentro la crisi dello stato sociale evitandone lo sfaldamento (con un rapporto di lavoro sostanzialmente fatto dagli Enti Locali), tra l'altro il costo sarebbe compensato da un recupero produttivo della CIG, CIGS, Mobilità, ma ancora di più da un dato culturale che nel tempo si può realizzare e cioè quello di avere un individuo (l'uomo e la donna), costruito anche da una attività non direttamente produttivistica, ma su una attività dove l'accento non viene solo dall'efficienza ma dell'efficacia del suo lavoro. La terza, vuole essere nei fatti il superamento della logica borghese sulla formazione degli individui, che vuole l'individuo interessato ai processi formativi quasi esclusivamente nella età giovanile e poi tutta la vita dedicata al lavoro. In pratica io scelgo lo stato per la sua capacità di creare il “lavoro di efficacia” e il sistema delle imprese per il “lavoro di efficienza”.

In URSS c’era una netta divisione tra quello che io chiamo il lavoro di efficacia e quello di efficienza – il lavoro di efficacia oltre che alla cura delle persone e la loro istruzione, era volto alla produzione di strumenti di morte = le armi (perché è questa una attività dove appunto il lavoro lo si misura attraverso l’efficacia = una mitragliatrice deve sparare sempre senza mai incepparsi, un aereo deve stare sempre in aria, ecc.), il lavoro di efficienza verso la produzione di beni di consumo durevoli (dove appunto il lavoro lo si misura attraverso l’efficienza = quanta produzione oraria). Intanto una prima contraddizione nella costruzione del socialismo = che il meglio della capacità, della professionalità, della creatività dei lavoratori, della scienza e della tecnica era tutto fiondato sulla produzione di strumenti di morte! Quando Lenin aveva vinto la sua battaglia per la egemonia sulla parola d’ordine: Basta con le guerre e la terra ai contadini! Mentre sul lavoro di efficienza c’era la maggiore inefficienza e il maggior sbattimento generale!

Quel tanto che se volevi trovare delle similitudini tra il PCUS e i partiti italiani, c’era eccome ma non con il PCI ma con la DC. Tutti e due partiti stato (vedi la fine rovinosa di entrambi). Insomma uno scambio in entrambi i casi: “io non rompo le balle a te, tu dai un voto a me!”. In Unione Sovietica un consenso in cambio di: poca produttività, poco salario, poco consumo. E con tre poco chi si accontentava? Un individuo mediocre, che se ne sbatte. Mentre in quasi tutte le fabbriche da me visitate (e sono state svariate) alla domanda di quanto era l’assenteismo al Lunedì, vedevo nelle facce dei miei interlocutori disegnarsi l’imbarazzo. Il Lunedì era consacrato a smaltire la sbornia di Vodka fatta durante la Domenica. La Vodka per i russi stava alle armi per gli americani: patologia. Così come il turnover da una azienda all’altra trovava delle cifre molto alte (e questo fin dalla nascita dell’URSS, quel tanto che era stato oggetto di proposta da parte di Troscki per la militarizzazione della classe operaia). Chi erano quei lavoratori che andavano errando da una fabbrica all’altra? Erano ovviamente i lavoratori provvisti di una buona qualificazione (e quindi erano in cerca di maggior salario) ma anche per sottrarsi al clima pesante e untuoso di paternalismo (è sempre l’altra faccia della medaglia di ogni autoritarismo). In pratica ne viene che la costruzione del socialismo ha bisogno di motivare gli individui più curiosi, più intraprendenti, altro che la mediocrità. Vittorio Rieser mi diceva che un aumento della produttività individuale e collettiva nei paesi dell’est si poteva misurare in occasione delle poche rivolte operaie nei confronti delle burocrazie al potere.

Più democrazia è uguale a più produttività

Intanto occorre dire che nella nostra cultura, democrazia e produttività sono sempre state considerate delle antinomie. Allora occorre essere consapevoli che se non si vuole essere dei parolai occorre dimostrare nei fatti e sul campo che i due termini si possono sposare e convivere felicemente insieme. Così come i padroni riescono a dimostrare con i fatti e non con le parole un ben altro assioma: più comando = più produttività. Infatti si può benissimo dire che la fabbrica taylorista – fordista e post-fordista vive su un altro assunto: la mancanza di democrazia.

Nel 1982 a Torino facemmo un corso delle 150 ore all’Università con il compagno Prof. Oddone mettendo a confronto 3 situazioni: il comune di Torino, l’USL 1-4 di Torino e la FIAT Mirafiori – le leggemmo attraverso l’assunto: + democrazia = + produttività e cosa scoprimmo? Che l’assunto dava una risposta positiva alla FIAT Mirafiori!

Nel saggio “L’uso inumano dell’essere umano” di N. Wiener ad un certo punto si dice: “nell’epoca dello schiavismo, un essere umano legato al remo di una galera era usato solo come fonte di energia, così come oggi nella fabbrica moderna l’essere umano è costretto alla catena di montaggio e quindi alla ripetizione stupida di alcuni manciate di secondi di attività, ne viene che l’uomo moderno è utilizzato per un milionesimo delle sue capacità” – in pratica l’essere umano moderno non è “sfruttato”, se per sfruttamento si intende le sue capacità mentali. Allora si pone la vera sfida con il capitalismo globalizzato – progettare un lavoro e una fabbrica dove maggiore produttività sia insieme a maggiore democrazia. Se non ci si pone questa sfida la battaglia è persa in partenza.

Per maggiore chiarezza espositiva osservare lo schema seguente:

I fattori che influenzano la produttività

1° - La durata del lavoro = l’orario
2° - L’intensità del lavoro = la prestazione
3° - L’innovazione = di progetto, di prodotto, di processo
4° - La professionalità e l’OdL

Se aumenta il 1° e il 2° fattore aumenta lo sfruttamento
Se aumenta il 3° e il 4°, bene, è quello che vogliamo

Inoltre entrano in gioco alcuni fattori di carattere “politico-ideologico” come i seguenti:

Per il padrone: PIU’ COMANDO = PIU’ PRODUTTIVITA’
Per i lavoratori: PIU’ DEMOCRAZIA = PIU’ PRODUTTIVITA’

È evidente che è un assunto che va dimostrato nella pratica – in pratica è prima di tutto una sfida a noi stessi prima ancora che al padrone. Ivar Oddone mi ha insegnato a fare delle ricerche “irrituali”: non leggere solo la normalità che nella fase attuale è solo “sghinga”, ma leggere la “devianza” (evidentemente quella a carattere positivo). Domanda: nella fase attuale è possibile rintracciare delle esperienze positive per farle diventare come diceva A. Gramsci, “ordine morale” per il rimanente dei lavoratori?

Io so che: 1° alla GM negli USA tra i lavoratori stabili c’è (c’era! È il dopo Marchionne) in atto da decenni il salario indicizzato – 2° nelle grandi aziende giapponesi il 30% dei lavoratori è assunto a vita con il diritto di prelazione per i propri familiari – 3° in Germania alla Wolkswagen è in atto un interessante esperimento nell’ultimo stabilimento costruito che vede l’intera mano d’opera suddivisa in 2 o 3 categorie a salari uguali all’interno di ogni categoria (all’IRES-CGIL di Torino vi sono gli atti di un convegno tenuto lo scorso anno). Aggiungo che in tale stabilimento ci è raggiunto il massimo di produttività (riferito agli stabilimenti della WV) con il minimo di assenteismo.

Capisco ma non condivido le probabili obiezioni: ma queste proposte sono roba da società socialista: 1° perché il demandare ad un futuro “socialista” i problemi concreti dell’oggi significa non tentare di risolverli adesso, qui e ora – 2° perché è un’idea che ha già fallito (vedi i paesi dell’Est) – 3° perché occorre inverare nella realtà attuale le ipotesi di soluzioni che si potranno avere un domani.

Lo statalismo del PCI e del PSI

Nella dottrina il PCI era statalista, mentre (sempre nella dottrina) il PSI era per una società molto più libera, per la presenza della cooperazione, delle società di mutuo soccorso, ecc. Nella pratica avvenne proprio il contrario: nel primo centro-sinistra dei primi anni ’60 il PSI nell’azione di governo si dimostrò del tutto statalista: con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, con un ulteriore presenza delle Partecipazioni Statali, eccetera. E tutto ciò vide il protagonismo della sua componente di sinistra: i lombardiani, con Giolitti, Ruffolo (ex trosckista), eccetera. Ma erano statalisti liberali come Scalfari e udite, udite come Luigi Einaudi!

Mentre il PCI non per scelta, ma per necessità (che ne fece virtù) diventò “localista”. Applicò l’enorme saper fare della sua gente nelle scelte locali: il comune, la provincia e negli anni ’70 nelle regioni. Civilizzando nei fatti l’Italia: dall’Emilia Romagna alla Toscana, all’Umbria, passando per tutti gli anni ’70 alla stagione delle “giunte rosse” (vedi l’esempio di Novelli a Torino). Il motore di questo processo fu l’esempio positivo che andava studiato, imitato quel tanto da incuriosire persino giornali e paesi lontani quali gli USA. Quel tanto che se c’è qualcosa da salvare nella storia dei comunisti italiani è la pratica unitaria nelle giunte rosse assieme all’altrettanto pratica unitaria dei comunisti nel sindacato. Senza la quale pratica l’unificazione delle sigle sindacali per oltre un decennio non ci sarebbe stata. La presenza dei comunisti favorì l’incontro dialettico tra i lavoratori più radicali (pochi) e i lavoratori più moderati (molti). E faccio apposta la distinzione tra i comunisti e il loro partito. La storia concreta ha delle sfaccettature diverse, per l’azione del partito e per l’azione concreta nelle situazioni concrete dagli appartenenti a tale partito. Una per tutte: i bilanci in rosso. Nella quasi totalità dei comuni governati dalla sinistra il bilancio comunale era programmato dalla giunta quasi sempre in rosso: per poter fare quelle scelte di politiche sociali necessarie e che avevano dei tempi di realizzo e di copertura “differiti”, ovviamente nel tempo. Non che la DC fosse talmente virtuosa sia a livello locale che al governo da operare sempre in pareggio. Anzi il magna magna era il dato dominante. Adesso qual è la situazione nella sinistra: io vedo il prevalere di una sorta di rigorismo alla Quintino Sella (era il rappresentante della Destra storica nell’ottocento), che li fa diventare una sorta di “gabellieri” delle burocrazie tecnocratiche della UE, o per stare alle pratiche molto più prosaiche dello SPI CGIL anche loro “gabellieri” di questo stato inetto, incapace, lassista (vedi l’enormità di lavoro fatto per il 730).
Su questo, quand’è che la sinistra avvierà sul serio una critica serrata alla burocrazia del nostro paese, senza lasciare tutto ciò nelle mani della destra. In pratica con i bilanci in rosso si è civilizzata l’Italia e di questo i “segni” esistono ancora.

Uno mi dirà: “ma tu mi stai parlando di “archeologia politica”. È vero, sono cose un po’ antiche però per me vale sempre la lezione di Ivar Oddone che dice: “chi non sa pianificare il proprio passato, non è in grado di progettare il proprio futuro”. Perché mai allora dovremo fare riferimento al 25 aprile del ’45, alla Costituzione Repubblicana.

I tempi della “rivoluzione”

Tutte le rivoluzioni che si sono succedute nell’ultimo secolo hanno dato vita a lotte esaltanti con immani sforzi e sacrifici (fino alla morte) di masse di lavoratori e di popolo. Tutte le rivoluzioni (compresa quella cubana) hanno fallito l’obiettivo di costruzione dell’uomo “nuovo”. Io penso che in parte ciò sia dovuto al fatto di non avere rispettato i tempi di maturazione di coloro i quali erano stati protagonisti degli elementi di rottura. Valga per tutte l’affermazione di Che Guevara che nel suo libro di istruzioni per la guerriglia dice che l’andatura della banda guerrigliera deve essere data “dall’ultimo della pattuglia”. In caso contrario i più forti rimarranno soli e alla fine perderanno. Così come è avvenuto in piccolo anche alla FIAT (vedi i 35 giorni).

I migranti

Invece di avere una politica per l’emersione in chiaro dalla clandestinità, facciamo di tutto (fa di tutto l’attuale governo) per ricacciare nella clandestinità migliaia e migliaia di questi migranti, condannandoli ad una vita precaria, spiantata a ridosso della criminalità. Tutto in omaggio alla teoria (derivante dalla psicologia sociale) che vuole che C = f A: il comportamento è una funzione dell’ambiente che circonda un individuo, per cui se uno è clandestino si comporterà da clandestino e se lo è attorniato da comportamenti criminali, sarà indotto a imitarli!
Forse siamo di fronte ad una novità rispetto ai 100 e passa anni di altre migrazioni che hanno visto milioni e milioni di italiani lasciare il proprio paese. Intendo dire che è vero che le migrazioni hanno sempre coinvolto paesi poveri verso paesi ricchi, però specie la migrazione dai paesi d’Europa verso le Americhe dietro avevano “paesi in via di sviluppo”. Oggi (forse) siamo di fronte al fatto che nei paesi a forte migrazione dall’Africa e da alcuni paesi del Medio Oriente o dell’Asia ciò non esiste più. C’è guerra, fame, disperazione, corruzione immensa dei governi e rispetto al passato più remoto qualsiasi abitante di quei paesi può vedere attraverso la televisione il “modello di vita” di noi bianchi (almeno quello che gli sforniamo giornalmente attraverso la pubblicità). Per cui la voglia di andarsene in cerca di fortuna diventa enorme e per chi resta si alimenta invece una sorta di “parassitismo” derivante dalle richieste di denaro, continue, pressanti per chi è arrivato in “paradiso” (in Europa, in Italia). Cose conosciute da molto tempo anche nel nostro paese, fino a pochi decenni fa paese di emigrazione.

Sicurezza - insicurezza

Il problema del fenomeno della sicurezza-insicurezza a mio avviso ha a che fare con il fatto che nell’attuale momento storico l’incontro di diverse etnie, diverse culture, religioni, ecc. si viene a trovare con un combinato disposto fatto di una situazione di crisi economica da una parte che ovviamente non offre a queste persone tutto ciò per il quale loro sono venute speranzose di trovare nel nostro paese e dall’altra da un confronto tra una società di “vecchi” (la nostra) ed una moltitudine di giovani (gli stranieri). Se la crisi che si annuncia all’orizzonte si farà più seria io temo che ne vedremo di brutte, a partire dagli effetti che avrà sull’anello più debole rappresentato dalla presenza degli stranieri. Pensiamo ad una contrazione dei redditi (da inflazione, ecc..) e la possibilità per decine di migliaia di famiglie di mantenersi (anche in nero) la badante. Ovvero la contrazione produttiva derivante dall’aumento dei costi (vedi il petrolio e le materie prime, ecc.), dove taglieranno per primo le aziende che andranno in crisi? Sulla manodopera straniera!

A Torino il nucleo familiare da una persona assomma al 41%. Nel 1978 la % era del 29,8% (dati nel Quartiere San Donato). Siamo quindi ad un aumento di oltre l'11%. Chi ci sta in quel 41%: penso io, una fetta di stranieri, ovviamente, che specie per i primi anni arrivano qui da soli e sufficientemente giovani e si insediano dove altri come loro sono già insediati.
Ma la stragrande maggioranza si tratta di anziani, specie donne (in quanto campano più a lungo). Come ben si sa l'anziano è un individuo molto stanziale, se ha una casa se la tiene, non va all'avventura, non si sposta facilmente da una zona all'altra.
E a Torino se uno è solo, lo è come un cane. La sua vita è scandita da una desolante solitudine (problema per il quale è sempre indicato tra i primi in ogni ricerca), in qualche caso mitigata dalle visite di qualche parente, da rapporti più o meno buoni con il vicinato, ecc. Quindi siamo di fronte ad una società (la nostra), fatta essenzialmente di anziani che incontra dei giovani (di altra provenienza, cultura, religione, costumi, ecc.) e ne ha paura... La scienza (medica e la psicologia) ci spiega che a 65 anni gli individui diventano "fragili": non hanno più le “attrezzature” per affrontare il nuovo, nuovo che appunto crea timore, fa paura.. e io penso che la “fragilità” psicologica abbia un’età molto inferiore ai 65 anni. Se poi ci aggiungi che nella solitudine questi individui (anziani) si sorbiscono 4 ore di attuale TV, la frittata è fatta...
Queste mie annotazioni possono spiegare in parte il divario che esiste tra i dati sulla criminalità, in calo, che ci dicono che l'Italia tra i paesi d'Europa è quella più tranquilla e la "percezione del rischio" che invece va alle stelle. Una delle risposte può forse ritrovarsi in queste mie considerazioni.

In pratica ci troviamo di fronte ad una società dove si misurano da una parte una popolazione relativamente vecchia (la nostra) con un’altra popolazione giovane (gli stranieri), provvista pure di una “marcia in più”, basta vedere la situazione dei ragazzi stranieri nelle scuole, imparano prima dei nostri, vogliono dimostrare di essere alla pari con noi.
Basta vedere la differenza tra la politica di “inclusione” che aveva l’impero romano e noi. Nell’impero romano la possibilità per uno straniero di diventare persino imperatore! E adesso la negazione di farli votare anche per le amministrative!
Perché comunque a me interessano gli stranieri? Mi interessano perché sono e saranno loro il moderno proletariato, e quindi mi interessano in quanto lavoratori a prescindere dalla loro provenienza, colore, religione, eccetera.

Per ultimo, nella mia non più breve esperienza di militante sindacale ho avuto occasione di prendere a calci nel sedere molte volte i "crumiri" sia in fabbrica che fuori, convinto come ero che questa fosse una utile "pedagogia sociale" da esercitare nei confronti di questi miei compagni di lavoro che secondo me sbagliavano. Ora a prescindere o meno da questa particolare "pedagogia sociale" (ad oggi molto discutibile), è mai possibile il "buonismo o il paternalismo" che caratterizza il comportamento della sinistra del nostro paese nei confronti del diverso e del più sfortunato tra noi? Io credo invece che bisogna avere un sano atteggiamento laico nei confronti delle persone per prenderle sul serio, e non insistere oltre nelle pratiche, tutte cattoliche, di paternalismo nei confronti queste persone.

Due libri – ne manca uno

Di questi giorni ho letto due libri con molto interesse: il 1° “L’Anticasta – l’Italia che funziona” è un libro a cura di Marco Boschini che illustra i 25 comuni Italiani definiti virtuosi sulla base di aver raggiunto 5 stelle (sono i criteri con i quali lo si diventa) nel libro non compaiono due “stelle” (mancanti): la produzione e il lavoro – il 2° “L’orgoglio industriale” di Antonio Calabrò - è questi un ex giornalista dell'Espresso, di orientamento destra del PD. Attualmente è direttore Affari Istituzionali e Relazioni esterne del Gruppo Pirelli. Nella sua disamina il Calabrò afferma che su ca. 4milioni di Partite Iva presenti in Italia attualmente ci sono 4.600 aziende (che lui definisce delle "multinazionali tascabili") che possono essere quelle che ci tireranno fuori dalla crisi (forse). Sono aziende del 4° capitalismo (lui afferma) - di che si tratta: "di un capitalismo di medie imprese manifatturiere che sono cresciute nel cuore dei distretti industriali, dominando reti e filiere produttive, di una nuova ondata di specializzazioni industriali, di un insieme di attività che si sono sviluppate dalle piccole dimensioni alle medie e poi alle medio-grandi, con una evoluzione significativa delle caratteristiche stesse delle imprese... una marcata propensione internazionale. Una corsa a conquistare nicchie produttive di d'eccellenza, a livello globale”. Eccetera…
Nel libro non appare quanto c'è di esternalizzazione ne di delocalizzazione, ne di precarietà, ne tanto meno di quale presenza sindacale.

DOMANDA – a sinistra cosa c’è di esempi virtuosi? Di esempi che possono essere imitati? Convinto come sono che è solo dagli esempi positivi che si può imparare. Perché queste domande. Perché è su un’altra dimensione su cui vedo una serie di compagni (dirigenti) molto appassionati, innamorati quasi, che mi vede al lato opposto: l’elemento più dannoso per l’attuale sinistra è dato da tutti coloro che amano continuamente il “mettere il lievito sulla merda”. Così Pugno una volta (era il 1970) mi aveva interrotto durante una delle mie solite tirate su come stavano male i lavoratori: “co’ ti Marchett” e proseguì tutto in torinese, “anche tu Marchetto ti diverti a mettere il lievito sulla merda, quasi che i “ruscun” abbiano bisogno di sentire da te quanto male stanno loro… ma va a caghè”. Che lezione ragazzi miei. Aveva ragione lui.

Nella socializzazione delle scoperte scientifiche di gramsciana memoria vi è appunto la socializzazione degli esempi positivi che devono essere appunto socializzati per farli diventare come diceva Gramsci: “un nuovo ordine morale”. Da Bertinotti a Giordano passando per Vendola e Ferrero e a tutti gli attuali dirigenti della sinistra sia radicale che riformista c’è una autentica passione per parlare sempre delle disgrazie del proletariato. Il quale alla fine si è proprio stufato e ci ha lasciato sul pavè. Dalla mia esperienza di operaio alla FIAT che cosa ne ho tratto: che se non c’era una officina che partiva rappresentando per questa via un esempio positivo da imitare col fischio che ci sarebbe stato un movimento così tumultuoso che in poche settimane e mesi si allargò a macchia d’olio per tutta la Mirafiori, per tutta la FIAT, per tutte le fabbriche, ecc.
Sempre il compagno Ivar Oddone una volta mi disse: “vedi Marchetto, il baco della sinistra (era il 1972!) è quello che quando fa delle ricerche, delle inchieste studia sempre la “normalità” = la sginga, mentre dovrebbe fare ricerche, inchieste sulla “devianza” (a carattere positivo)”.

I territori liberati

Più che comuni o fabbriche virtuose sarei per “zone o territori liberati”, dalle schifezze interne alle fabbriche (precarietà, rischi da lavoro, bassi salari, gradi di libertà, ecc.) – stessa cosa nei territori “comuni”.
Perché non pensare di costruire noi un movimento dei “territori liberati” a partire dai comuni dalle fabbriche che si conoscono, dove abbiamo delle informazioni, degli agganci. È ovvio che bisogna individuare (attraverso la validazione consensuale) dei criteri per stabilire quali sono i “territori liberati”. Ed è evidente che su questa impostazione bisogna avere il massimo a disposizione del territorio (per poterlo liberare), da un moderno “federalismo fiscale”, che altro non è la vecchia pratica comunista degli anni ’60 riferita ad avere una “autonomia finanziaria locale”, senza la quale gli amministratori locali, loro malgrado, diventano tutti dei gabellieri di altri centri di potere. È questo un processo che se fatto conoscere ai più (con le moderne macchinette informatiche ciò è possibile) potrebbe essere da una parte di esempio e dall’altra rappresentare una bella contraddizione nel campo delle imprese e nel campo delle amministrazioni comunali. Ed per me chiaro che è su questa articolazione sul territorio che si può costruire un movimento unitario e plurale, fatto di conoscenza, di competenze e saper fare. Cosa osta mettere in una rete a carattere internazionale un’idea di questa natura? Assolutamente niente. Ne andrebbe valorizzato l’esperienza di decine e decine di soggetti.

Rivalutare Togliatti

Ho sempre subito un fascino straordinario nei confronti di Gramsci. Negli ultimi tempi vado rivalutando anche la figura di Togliatti, almeno su due questioni: la 1° attraverso la “svolta di Salerno”, dove impose al suo partito la strategia dei CLN mettendosi pure d’accordo con i monarchici, quindi una pratica dell’unità in funzione di un obiettivo molto chiaro: farla finita con la guerra e cacciare via i tedeschi e i fascisti. La 2° (davvero mirabile) quella del partito nuovo, di massa: ad ogni campanile una sezione, una casa del popolo, una camera del lavoro!
Che lezione ragazzi miei! Ad oggi nella sinistra si guardano tutti in cagnesco quasi avessero la scabbia.

E che dire di un’altra pratica unitaria dei comunisti, specie quelli impegnati nel sindacato dei Consigli di Fabbrica per tutti gli anni ‘70 (quelli della mia generazione). Forse non si sa che i primi 56 Delegati alla Mirafiori furono: 14 per la FIM (Democristiani di sinistra e radicali), 14 per la FIOM (PCI, PSIUP e PSI), 14 per la UILM (tutti socialdemocratici di Saragat, alla FIAT quasi tutti un po’ venduti) e 14 per il SIDA (il sindacato giallo in mano alla FIAT). La gloriosa FLM nasce da questo iniziale compromesso.
Per non dire la pratica unitaria dei comunisti negli Enti Locali dove se non davi al socialisti più posti di quanto loro rappresentassero, il giorno dopo li trovavi assieme alla DC. Ma che attraverso questo compromesso le giunte di sinistra civilizzarono l’Italia!

I soggetti

Ho detto prima quali soggetti esperti bisogna ricercare: “l’esperto tecnico e l’esperto grezzo”. Certo non basta, occorre avere una strategia per coinvolgere tutta una serie di soggetti sprovvisti di expertise: uno per tutti = gli stranieri (ma anche gli “stranieri” italiani, nel senso di tutti quei giovani che non sanno nulla del percorso virtuoso degli anni ’60 e ’70). Occorre partire qui dalle loro condizioni per offrire loro un percorso che va DALL’INDIGNAZIONE ALLE RIBELLIONE AL CAMBIAMENTO. Da questo punto di vista occorre però essere coscienti che se vuoi convincere uno di questi soggetti occorre certo l’uso il più accorto, il più raffinato possibile dei moderni mezzi informatici e telematici, ma occorre anche sapere che se vuoi conquistare la fiducia, questi soggetti, questi, hanno bisogno di odorarti, di sentire la tua emozione dal vivo, se no… ciccia! E va detto loro tutta la verità: che un nuovo movimento di ribellione avrà costi salati per tutti coloro che si ribelleranno. Sarebbe per me e per la mia generazione, un bel modo di risarcire, per i torti subiti la generazione dopo la mia.

AIUTO !!!

Il mondo si è rovesciato e io sono molto “social confuso”.

NEL MONDO - Per dire, basta guardare alla Cina (che si definisce comunista) per vedere un regime a economia pianificata con un capitalismo “primitivo”, nel senso che con una velocità impressionante sta facendo quello che altri capitalismi hanno fatto in decenni: l’accumulazione primitiva, sulle stesse identiche produzioni del capitalismo più classico. Per non dire la sua vicina di casa, la Corea del Nord sempre dello stesso regime che ha pianificato la miseria e la bomba atomica! Mah!
Che dire degli USA di Obama che va in cerca di imitare ciò che è stato fatto in Europa con la stato sociale nei decenni passati. Auguri. A me pare che anche lì ci sarebbe bisogno di un sano conflitto di classe.

Con la fine delle stati colonialisti si è passati con la “globalizzazione” e la “delocalizzazione” al colonialismo in mano alle multinazionali. Con tre effetti: il 1° che le guerre non le fanno più solo gli eserciti “classici”, ma che ci sono “armate” private pagate dalle multinazionali o da boss di regimi fantoccio - il 2° la nascita dei “non stati”: vedi per tutti la Somalia, il Congo, ecc. 3° l’emergere di veri “stati canaglia” tipo la Russia in Europa e la Nigeria in Africa che sono paesi ricchissimi di materie prime (dal gas al petrolio ad altre materie prime), ma che non producono nulla e al loro interno vigono dei regimi autoritari, corrotti fino al midollo, in mano a oligarchie ricchissime con una popolazione ridotta allo stremo, sfiduciata, sfibrata.

Riporto ora alcune considerazioni (che mi hanno convinto) di Jaques Sapir Direttore di studi degli Alti Studi in Scienze Sociali di Parigi il quale ad un certo punto dice (vedi un saggio apparso su Le Monde Diplomatique di Marzo):

Esportiamo: è vero capacità produttiva, tecnologie, innovazione, però sui prodotti che ci hanno portato alla situazione attuale, e non invece su produzioni alternative. Attratti unicamente dai bassi costi di lavoro, di diritti, di regole fiscali, ecologiche, ecc. Importiamo: merci a prezzi bassissimi e a costi altissimi (costi umani intollerabili). Importiamo quindi salari, diritti, ecologia da terzo mondo. La combinazione di libero scambio e di rigidità monetaria dell'euro rende necessaria, dal punto di vista degli imprenditori, l'immigrazione clandestina, il clandestino non è coperto dal diritto sociale esistente. Quindi l'immigrazione diventa l'equivalente di una svalutazione di fatto e di uno smantellamento dei diritti sociali di fronte alla pressione della concorrenza importata. I sostenitori del libero scambio dimenticano sempre di ricordare la conversione di John Maynard Keynes, che fu un risoluto sostenitore del libero scambio all'inizio degli anni '20, poi, a partire dal 1933, del protezionismo. Keynes non ha più cambiato posizione fino alla morte, avvenuta nel 1946, mentre i suoi progetti di riorganizzazione del sistema monetario e commerciale internazionale hanno dato ampio spazio al protezionismo, pur condannando l'autarchia. Misure protezionistiche, che permettano di modulare gli scambi con l'esterno, al contrario dell'autarchia che porta a ripiegarsi su se stessi, sono dunque necessarie. E’ addirittura la condizione sine qua non di qualsiasi politica di rivalorizzazione salariale, che renda solvibili le famiglie e permetta di aumentare la domanda. Aumentare i salari senza toccare il libero scambio e insieme ipocrita e sciocco. Peraltro, solo il protezionismo può fermare la spirale del minor offerente fiscale e del minor offerente sociale che si è instaurata oggi in Europa. D’altra parte che cosa sono le “quote latte” o per lo zucchero per i paesi della UE, o i sussidi per le granaglie o l’acciaio in USA?

Io vorrei che invece di mandare in giro i nostri soldati negli altri paesi a fare (o impedire) le guerre, ci fosse sul serio un invio massiccio di: elettricisti, muratori, tornitori, idraulici, contadini e un eccetera molto lungo che copra tutte quelle attività utili per dare una mano a quelle popolazioni per fare delle cose utili e per fare loro la formazione. Sai che bello il 2 di Giugno (festa del Repubblica) vedere sfilare al posto dei bersaglieri o degli alpini brigate di questi professionisti.
Ed è per questo che bisogna farsi cacciare fuori dalla NATO.

IN EUROPA – ma perché debbo andare a votare per un parlamento che so già che non conta nulla e lo faccio unicamente per vedere quanto contano le forze di sinistra (ormai zero), ovvero per una sorta di “coazione a ripetere” in cui anche la sinistra moderata ormai è preda. In questa crisi è mancata del tutto la presenza a livello della UE (per non dire a livello internazionale) di uno straccio di sindacato. Dopo di che i lavoratori in tutti i paesi della UE sono preda delle pulsioni e delle formazioni di destra. Siamo proprio mal messi.

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