domenica 6 gennaio 2008

Il Kayzen in salsa liberista

di Gianni Marchetto

Sulla Precarietà. Ora vorrei ragionare sul tema della precarietà e per farlo mi aiuterò facendo riferimento a due trasmissioni televisive della 7 - 8 e mezzo di Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni e l'Infedele di Gad Lerner. Tutti ovviamente contro il fenomeno della precarietà e (salvo Rinaldini e Ferrero), favorevoli alla flessibilità. Nella prima tra i nostri c’era solo Gianni Rinaldini contro quattro. Nella seconda Paolo Ferrero contro quattro (con la presenza della compagna Maulucci della Segr. Naz. della CGIL). In tutte e due veniva (da destra! con Giuliano Ferrara in testa) denunciato il livello intollerabilmente basso dei salari dei lavoratori italiani. Quel tanto che quasi tutti gli interlocutori facevano delle domande (più che interessate) a Rinaldini, a Ferrero e alla Maulucci. Al che i nostri tentavano di difendere i 2 livelli di contrattazione, in quanto Giuliano Ferrara, Tito Boeri e una economista di stampo liberista, imputavano sostanzialmente all’azione generale del sindacato (vedi i CCNL) un appiattimento in basso delle retribuzioni. Di più, Sacconi (ex CISL, ex PSI ora in Forza Italia) affermava che bisognava mettere in soffitta il conflitto con il proprio padrone per tentare un percorso che rendesse “complici” il lavoratore con il proprio padrone attraverso una contrattazione salariale tutta rivolta verso una condivisione su degli obiettivi di risultati aziendali. Così come l’economista (una donna) diceva che solo nella esaltazione della contrattazione aziendale ci sarebbe un movimento positivo, imitabile, ergo con un sventagliamento delle tariffe salariali tra i diversi comparti dei lavoratori, fabbrica per fabbrica, territorio per territorio ci sarebbe quel dinamismo necessario per la crescita dei salari nel nostro paese. Una sorta di esaltazione della contrattazione articolata.

Di contro Ferrero faceva notare che i bassi salari sono anche la “naturale” espressione della debolezza dell’apparato industriale italiano, troppo piccolo e disperso, aggravato dalla scarsa specializzazione sui prodotti, da una cronica carenza di investimenti su ricerca e innovazione, ecc. che lo porta alla fattura di prodotti con un basso valore aggiunto e giustamente (al contrario della Maulucci che puntava prima verso una politica industriale che risolvesse tali questioni e poi dopo ad un riadeguamento dei salari), Ferrero sosteneva che prima era opportuno che i salari aumentassero per “provocare” nel sistema delle imprese un recupero di produttività attraverso la ricerca, l’innovazione, ecc. A Tito Boeri che imputava i bassi salari a: 1° alla mancanza in Italia (unico tra i paesi della UE) di una legislazione sul Salario Minimo Garantito e 2° sul fatto di una rigidità del mercato del lavoro che a suo dire ha come effetto da parte dei padroni quello di “evadere” dalle norme contrattuali, la Maulucci sosteneva giustamente che in Italia a differenza che negli altri paesi della UE vigono i contratti di lavoro regolati erga-omness.

Ferrero, giustamente, faceva notare che per aumentare i salari occorreva certo una diminuzione della tassazione alla fonte per il lavoratore e il datore di lavoro… però fino ad un certo punto, perché se i soldi rimangono nelle tasche di questi, chi ci pensa per la sanità, la previdenza, ecc. ecc. ecc.

Le contraddizioni: non evidenziate da nessuno

Sulla complicità. Ammesso e non concesso la bontà nel render complici il lavoratore con il proprio padrone, quale complicità è possibile che si instauri tra un lavoratore precario (per il periodo di qualche mese o al massimo un anno) e il suo padrone? Qual è il motivo recondito che può favorire tale processo? Al massimo si possono avere invece altri comportamenti: il servilismo, il lecchinaggio, ecc. per alcuni con l’obiettivo (comprensibile) di guadagnarsi il posto e per altri lo sbattimento generale per la realtà appunto del tutto precaria in cui il singolo lavoratore si viene a trovare. Di più, quale curiosità ci sarà mai nell’apprendere un lavoro che non si sa se dovrà continuare o meno. Con gli effetti che questo atteggiamento ha sulla qualità del prodotto e del lavoro (immaginiamo nel lavoro della Pubblica Amministrazione: il prodotto sono servizi per i cittadini!).

La tostatura del caffè e il “precario”. Volendo si possono trovare in quasi tutti i processi produttivi, e maggiormente dove il prodotto ha a che fare con il gusto alimentare dei clienti, dove la norma è l’utilizzazione di lavoratori particolarmente esperti, dotati di altissima professionalità derivante da un lungo esercizio nella professione quale per es. il “tostatore di caffè”, che con il fischio viene scelto dal padrone tra i suoi precari. Bisogna accontentare il cliente liberista, in questo caso!

Il padrone lo sa bene. Ma d’altra parte il padrone sa benissimo queste cose. In Italia l’uso della precarietà non è dato da esigenze di carattere produttivo quali rispondere ad esigenze “oggettive” di flessibilità (il lavoro di ristorazione nel periodo estivo nei luoghi marini), ma, come dice bene Maurizio Zipponi all’Infedele di Gad Lerner, obbedisce alla scelta di riduzione dei salari, dei diritti, della possibilità di coalizione e di lotta di una parte anche minoritaria di lavoratori che di per sé annichilisce anche la maggioranza degli altri lavoratori. Quando questa strategia sia illuminata è tutto da vedere. La concorrenza alle produzioni cinesi e indiane sarà senza fine e alla lunga per noi perdente, condannando il nostro sistema produttivo a fare “carabattole”.

La piena occupazione e la flessibilità. Nel 1970 Agnelli denunciava un 20% di turn-over all’interno degli stabilimenti FIAT. Cosa segnalavano quelle cifre sul turn-over: che c’era persino chi nel periodo di prova “assaggiato il piatto” non lo gradiva affatto e se ne andava e quindi in un periodo di quasi piena occupazione la flessibilità (da posto a posto di lavoro o nella scala sociale) era una “chance” ricercata dai singoli lavoratori. Questo alla faccia della rigidità. Ma da che pulpito arrivano poi queste accuse rivolte al “posto a vita”, a una sorta di conservatorismo e quant’altro: dalla “casta” dei giornalisti (più o meno di sinistra, più o meno liberisti), dalla “casta” degli economisti e dei giuslavoristi, tutti figli di giornalisti, economisti e giuslavoristi. Ma che vadano al diavolo! È chiaro che la causa principale non sono le leggi che tendono (malamente) a disciplinare il fenomeno. La causa è evidentemente da ricercarsi nella struttura economica e nell’uso perverso e disumano dell’orario di lavoro.

Un diverso uso del tempo: Io così ragiono oggi, rispetto anche alla riduzione di orario di lavoro. Non mi entusiasma più di tanto la RO a 35 ore perché rimane tutta in una logica industrialista. Un diverso e innovato uso del tempo che tenti di andare oltre la divisione storica del lavoro produttivo e riproduttivo (che in ultima analisi è anche gran parte della divisione del lavoro tra uomo e donna).

Certamente vanno battute (o comunque va fatta resistenza) verso tutte quelle forme di riduzione di orario che tendono a ridurre la settimana con un allungamento della giornata lavorativa. Ne andrebbe della integrità psico-fisica dei lavoratori, nei fatti riducendo il lavoro al solo salario e il tempo "libero" dedicato al solo consumo. Sarebbe il trionfo del modello americano (in Italia!), costruendo un individuo sostanzialmente schizofrenico, che accetta un lavoro stupido ed eterodiretto in fabbrica, con una falsa possibilità di realizzarsi fuori.

Quindi il problema di un superamento della divisione del lavoro continua ad esistere, anche e soprattutto nella fabbrica integrata, in quanto il nocciolo duro del Taylorismo, la divisione tra chi pensa e chi esegue, non viene minimamente scalfito.

Invece vanno sperimentate tutte quelle forme di un diverso uso del tempo nella accezione che dicevo più sopra. La proposta:

20 ore di lavoro produttivo
8 ore di lavoro riproduttivo
8 ore di formazione, professionale e/o culturale


La scansione delle tre fette di orario risponde ciascuna ai problemi della società moderna. Evidentemente in termini cumulabili nel tempo. La prima (le 20 ore, con una ipotesi settimanale sui 5/6 giorni lavorativi), risponde alla necessità di ridistribuire il lavoro esistente. La seconda entra dentro la crisi dello stato sociale evitandone lo sfaldamento (con un rapporto di lavoro sostanzialmente fatto dagli Enti Locali), tra l'altro il costo sarebbe compensato da un recupero produttivo della CIG, CIGS, Mobilità, ma ancora di più da un dato culturale che nel tempo si può realizzare e cioè quello di avere un individuo (l'uomo), costruito anche da una attività non direttamente produttivistica, ma su una attività dove l'accento non viene solo dall'efficienza ma dell'efficacia del suo lavoro. La terza, vuole essere nei fatti il superamento della logica borghese sulla formazione degli individui, che vuole l'individuo interessato ai processi formativi quasi esclusivamente nella età giovanile e poi tutta la vita dedicata al lavoro.

In pratica io scelgo lo stato per la sua capacità di creare il “lavoro di efficacia” e il sistema delle imprese per il “lavoro di efficienza”.

In URSS c’era una netta divisione tra quello che io chiamo il lavoro di efficacia e quello di efficienza – il lavoro di efficacia oltre che alla cura delle persone e la loro istruzione, era volto alla produzione di strumenti di morte = le armi (perché è questa una attività dove appunto il lavoro lo si misura attraverso l’efficacia = una mitragliatrice deve sparare sempre senza mai incepparsi, un aereo deve stare sempre in aria, ecc.), il lavoro di efficienza verso la produzione di beni di consumo durevoli (dove appunto il lavoro lo si misura attraverso l’efficienza = quanta produzione oraria). Intanto una prima contraddizione nella costruzione del socialismo = che il meglio delle capacità professionali dei lavoratori, della scienza e della tecnica era tutto fiondato sulla produzione di strumenti di morte! Quando Lenin aveva vinto la sua battaglia per la egemonia sulla parola d’ordine: Basta con le guerre e la terra ai contadini! Mentre sul lavoro di efficienza c’era lo sbattimento generale e la maggiore inefficienza!

La scala mobile. Possibile che tutti (compreso i nostri) dimenticano che i salari italiani sono stati difesi per un certo periodo perché c’era la “scala mobile”? non ci sarebbe da ripristinare un qualche automatismo salariale, magari una volta l’anno. E questo per la particolare struttura industriale e produttiva italiana, fatta di migliaia e migliaia di piccole imprese che non verranno mai toccate dalla contrattazione aziendale. Così come non sono mai state toccate nel passato.

Sulla contrattazione articolata. Apparentemente i ragionamenti da me sentiti davano questa impressione: di una sua esaltazione. Ma a ben vedere erano del tutto capovolti rispetto alla nostra tradizione dell’articolazione (uso un linguaggio militare): la lotta articolata erano dei reparti di classe operaia che si dislocavano in trincee più avanzate per permettere al resto dell’esercito di pervenirci nel Contratto Nazionale. Nei ragionamenti da me sentiti c’era invece un ragionamento del tutto liberista, quasi che il modello che va bene per i padroni possa andare bene anche per i lavoratori, quando nell’esperienza storica di carattere positivo e acquisitivo questi l’hanno avuta nella cooperazione tra di loro come esperienza imitativa e non invece come concorrenza tra di loro.

L’esperienza USA. Ma del resto nessuno ha tirato in ballo l’esperienza della classe operaia e dei sindacati americani, attualmente ai minimi storici, esperienze storiche per altro non caratterizzate dal “classismo” europeo e ancor più italiano, ma sostanzialmente sindacati di “mercato”.

L’esperienza giapponese. Ma così come nessuno ha tirato in ballo l’esperienza giapponese, di cui parlano le belle note di Cesare Cosi. Di cosa si tratta in estrema sintesi: in linea con la tradizione della “cultura del riso” di medioevale memoria (del medioevo giapponese) che vuole una bassissima mobilità territoriale, accompagnata dal “farsi carico” (in termini del tutto paternalistici) del signore del luogo, della condizione dei suoi servi, la nascita dell’industria giapponese era del tutto tributaria di questa cultura e impostò le relazioni interne alla fabbrica tra lavoratori e datori di lavoro in questa maniera. Per cui abbiamo (nelle grandi fabbriche) il lavoro garantito a vita con il diritto di prelazione per i propri parenti e un sistema di lavoro improntato dal Kaizen (da tanti Kaizen). È la filosofia del Total Quality. Questa esperienza che ha fatto le fortune dell’industria giapponese per decenni, così come dice giustamente Cesare è sì una applicazione del Taylorismo ma cucinato in salsa giapponese. È stata scoperta alla fine degli anni ’80 in Italia e quindi qui importata con grande enfasi specie dalla FIAT di Romiti. Bene. Ma dov’è che si è mai visto negli stabilimenti della FIAT che un lavoratore premesse un bottone per fermare la catena di montaggio in occasione del fatto che gli passava davanti una vettura mal fatta? Mai al mondo! Nello stabilimento di Melfi è vero che il bottone c’era, però non funzionava, era disattivato! E si che questa era la forma su cui si basava il tanto decantato Kaizen: rendere partecipe il singolo lavoratore del processo di lavoro al fine di evitare gli scarti ricorrenti. Ma quando mai le imprese italiane hanno mai fatto le riunioni giornaliere di piccolo gruppo di lavoratori per discutere insieme come fare meglio. In quali imprese italiane è presente la stessa dinamica delle categorie professionali e delle retribuzioni alla giapponese caratterizzate da un ventaglio minimo di differenziazioni. Eccetera. È vero che tutto ciò aveva un suo prezzo: chi non ci stava era emarginato, quel tanto che lo viveva anche psicologicamente fino ad arrivare al proprio suicidio. Ed è vero la totale subordinazione del sindacato a tale modello. In sintesi si può dire un modello che “vuole strizzare l’acqua da un asciugamano asciutto”. Però perché non vedere in quella esperienza anche il meglio dell’esperienza di contrattazione italiana sui problemi delle OdL negli anni ’70? E questa esperienza si badi bene venne fatta del tutto in maniera autonoma da parte dei lavoratori e dei loro sindacati! Vedi i 3 esempi di cui io parlo nel mio “tormentone” sulla Mirafiori a pag. 33 al capitolo dedicato all’intelligenza operaia. Quel tanto che le uniche pubblicazioni che scientificamente riconoscono tutto ciò sono di fonte padronale, vedi gli studi sui mutamenti intervenuti in 10 anni nelle varie officine della FIAT ad opera della TELOS (azienda di consulenza aziendale in mano alla FIAT) che riconosceva che accanto ai progressi sulle nuove tecnologie, all’introduzione di nuovi prodotti, “anche la stragrande maggioranza della contrattazione effettuata negli anni ’70 era stata causa favorente di innovazione e di aumenti di produttività”.

Ma si sa, ciò che noi vediamo della realtà che ci circonda combina con ciò che noi conosciamo: se andiamo nel bosco cosa vediamo: alberi! Se siamo dei botanici possiamo vedere le querce, i pioppi, i castani, ecc. per cui degli anni ’70 la maggioranza cosa vede: cortei e pestaggi dei capi. È vero poi che la situazione giapponese non era del tutto assimilabile a quella descritta appena sopra: ho letto che riguardava il 30% della forza lavoro, un altro 30-40% subiva una forte mobilità, e il rimanente era in condizioni di carattere “servile”. Vero. Però la situazione italiana com’è? Si può dire che la scansione è la stessa con la precarietà che la fa da padrone dappertutto e che rende insicuri anche i sicuri. Ed è del tutto ovvia la scelta che il sottoscritto farebbe tra due avversari: italiani o giapponesi (sarei per scegliere ovviamente questi ultimi). Sarebbe sul serio una bella sfida.

Competizione e cooperazione. È ovvio che nella cultura del padronato vi sia radicato il concetto di “competizione” fino a ritrovarlo nel proprio DNA. Vale il “morst tua vitae mea”. Quel tanto che le uniche forme di cooperazione che attiva sono quelle (assieme ai suoi simili) di “difesa” rispetto alle leggi e all’intervento dello stato nei suoi interessi, ovvero per dare addosso ai lavoratori. E ancora quando parla e chiede la cooperazione nei confronti dei lavoratori di solito lo fa con l’imbroglio, per sfruttare ancora di più i lavoratori. Pochi sono coloro i quali cercano la collaborazione con i propri dipendenti in maniera disinteressata. Mentre per i lavoratori la storia del movimento operaio e lì a dirci che la totalità delle conquiste economiche, di diritti, legislative, di stato sociale, ecc. sono avvenute tutte per effetto della cooperazione collettiva. E così sarà sempre fino a che in questo mondo rimarranno delle ingiustizie che dividono pochi privilegiati dai molti sfruttati. Possibile che sia così difficile capirlo. È incredibile la superficialità e la mancanza di dialettica nel vivere degli uomini che caratterizza questi moderni liberisti.

Norberto Bobbio. In allegato offro una riflessione di Norberto Bobbio sui limiti “naturali” del mercato che mi pare di una attualità del tutto moderna. Ma è mai possibile che un “liberista puro” condanni la propria esistenza (nei suoi vari rapporti con le altre persone) ad un puro rapporto di scambio, scandito solo dal tornaconto economico, di mercato. Che pover’uomo questo uomo liberista! Ed è in relazione a questa concezione dell’uomo che occorre dire e praticare che “ribellarsi è giusto”.

Giovani e anziani. Così come non se ne può più delle “bubbole” rivolte ai lavoratori anziani che sarebbero dei garantiti ad oltranza, superpagati, supergarantiti e super… ecc. Ma come si fa a non vedere la situazione (per la prima volta) che vede un trasferimento imponente di risorse finanziarie dai lavoratori anziani ai giovani a partire dalla situazione familiare: i cosiddetti “bamboccioni”!

Chi premiare e chi punire. È evidente che una politica industriale degna di questo nome tra le altre cose dovrebbe premiare tutte quelle aziende che fanno profitti certo, ma che all’opposto dei liberisti ad oltranza tengono in conto i lavoratori dal punto di vista della loro sicurezza e dal punto di vista della loro competenza lavorativa e professionale: ergo, che promuovono tutte quelle forme di partecipazione al processo produttivo atte a renderlo accettabile ed umano. Ci sono di queste aziende in Italia? Certo che ci sono! Andrebbero messe in un archivio di “buone pratiche”, messo su Internet e fatto conoscere ai più, per dimostrare che si può produrre bene, facendo profitti, senza cavare il collo ai lavoratori. Anche qui però mi sa tanto che questo mio ragionare con il buon senso non faccia per niente il paio con una cultura sedicente di sinistra (anche se radicale) innamorata di spiegare sempre la “normalità”: la sginga, tutto va male signora la marchesa! Mentre dovremmo dedicare tempo e risorse per fare delle ricerche e delle inchieste sulla “devianza” (come mi ha sempre insegnato Ivar Oddone): scoprire le esperienze positive per metterle in luce al fine di favorirne l’imitazione. Non sarebbe questa una grande lezione che un sindacato veramente autonomo dovrebbe fare - fare delle esperienze di contrattazione sulla OdL con al centro il seguente binomio: + democrazia = + produttività.

Il ruolo dello stato. Il grande assente era “l’intervento dello stato nell’economia”. È questo ancora il grande tabù (anche per la sinistra radicale, salvo pochi). A quando un economista della sinistra che faccia i conti in tasca al capitalismo (liberista?) italiano in termini di soldi, prebende ed un eccetera molto lungo, che questi dà al padronato italiano, ricavandone da questo l’evasione fiscale più alta dei paesi industrializzati?

Nessun commento: