venerdì 22 febbraio 2008

Infortuni e Malattie Professionali

I PROCESSI CHE SI FANNO E QUELLI CHE NON SI FANNO
di Sergio Bonetto


Alcune recenti vicende hanno molto colpito chi, come me e come tanti altri, da vari decenni, si occupano sia professionalmente che a livello di impegno sociale dei problemi del lavoro.
Mai avrei creduto, se me lo avessero detto 30 anni fa, che il papa e vari cardinali, il presidente della Repubblica e, da ultimo, anche lo stato maggiore di Confindustria si sarebbero pronunciati pubblicamente e con tanta frequenza in difesa delle condizioni materiali dei lavoratori dipendenti, della loro integrità fisica, dei loro redditi, con toni compassionevoli, accorati, che un po’ ricordano i toni di quelle dame di S. Vincenzo che erano tanto “attaccate” ai “loro” poveri. Così attaccate da avere cura di conservarli nella povertà nei secoli.

La prima sensazione, quella di trovarsi di fronte ad una “invasione di campo”, è sbagliata.
Il vuoto di iniziativa politica e sindacale su questi temi è talmente grande che chiunque può avere la tentazione di colmarlo. Chi seriamente assicura, oggi, il presidio del campo?
Prendiamo l’esempio degli infortuni sul lavoro. E’ fortissima la sensazione che la maggior parte di quelli che si pronunciano pubblicamente su questo “fenomeno” lo faccia strumentalmente e sulla base di dati “orecchiati”. A partire dai numeri.

Si continua a parlare di circa 1300 morti sul lavoro l’anno.

Confindustria, normalmente aggiunge che il dato non è molto rappresentativo perché circa il 50% dei casi si riferisce a infortuni in itinere. A volte precisa anche che in non pochi casi si tratta di lavoratori stranieri che operano irregolarmente (“in nero”) nell’edilizia. Così facendo Confindustria tenta di occultare le proprie responsabilità e, conseguentemente, tenta di sottrarsi ad un confronto sulle cose da fare e, soprattutto, sui soldi da spendere per risanare le innumerevoli situazioni di rischio.

Ciò che sorprende è che nessuno degli interlocutori di Confindustria in questa discussione pare essersi accorto dei morti per malattia professionale. Nei “1300” non sono infatti conteggiati tali casi. Ma quanti sono?

La risposta non è agevole. L’Inail, pur nella miriade di dati che fornisce, non indica con chiarezza, anno per anno, i casi di morte nei quali la malattia professionale è intervenuta come causa diretta e unica, o come “concausa”. Sarebbe indispensabile, preliminarmente, richiedere con la dovuta urgenza ed energia all’Inail tale dato. Qualche ipotesi si può tentare. Le denunce di malattia professionale sono circa 26.000 l’anno. All’interno di questo dato stanno, in maggioranza, malattie sicuramente non mortali (ipoacusie ecc). Ma vi sono anche malattie (patologie tumorali, silicosi, asbestosi e patologie respiratorie in generale ecc.) che possono sicuramente essere causa di morte o, comunque, di riduzione della durata di vita attesa. I soli mesoteliomi (patologia indotta dall’amianto e sempre fatale) risultano, sulla base dell’apposito registro nazionale (peraltro anch’esso incompleto), oltre mille l’anno. Circa la metà sono riconosciuti dall’Inail.

Sarebbe indispensabile, per lo meno, che l’Inail fornisse il numero delle rendite ai superstiti, quelle rendite, cioè, che vengono corrisposte al coniuge e, in qualche caso, ai figli, qualora il decesso sia stato riconosciuto come collegato all’attività lavorativa svolta.
Anche questo dato sottostimerebbe il fenomeno, in quanto risulterebbero esclusi tutti quei casi in cui non vi è un coniuge -tecnicamente inteso, esclusi, quindi, i conviventi - superstite, tuttavia sarebbe una prima approssimazione. Oggi l’Inail fornisce solamente l’importo di spesa per tali rendite, dato totalmente inutilizzabile.

Se le cose stanno così, in ogni caso, non è azzardato ritenere che i morti da lavoro siano per lo meno il doppio di quanto si dice: non quattro ma otto al giorno.
Il fatto stesso che di tale dato nessuno paia essersi accorto la dice lunga sulla serietà dell’impegno di chi sta discutendo, con poteri decisionali, di queste questioni. Si può comunque aggiungere che, se si conteggiassero i morti sul lavoro conseguenti a malattia professionale, la posizione di Confindustria risulterebbe immediatamente per quello che è: un tentativo di occultare la realtà.
Le malattie professionali, infatti, sono praticamente tutte figlie di questa industria. E ancora, le malattie sono quasi tutte prevedibili e tendono a reiterarsi per periodi anche lunghi prima che venga predisposto un qualche intervento, e ciò in conseguenza della non immediata percezione sociale del fenomeno.

Esemplare il caso delle malattie da amianto in cui la lunga latenza di determinate patologie - perfettamente conosciute dagli anni ’60 - ha consentito all’industria di “tirare avanti” con la produzione sino agli anni ’90, producendo migliaia di casi mortali. Ancora oggi, a oltre venti anni dalla chiusura degli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato, in questa città vi sono 35-40 nuovi casi di mesotelioma ogni anno. E’ un “danno collaterale” dell’industria che gli esperti dicono continuerà per i prossimi venti anni.

In un paese confinante, la Francia, la magistratura ha condannato lo Stato per la sua negligenza nell’affrontare questo problema, non diversamente da come ha fatto la stessa magistratura con riferimento all’uso del “sangue infetto”. Da noi questi processi non si fanno.

Il fatto è che, su queste tematiche, come suol dirsi, “ce n’è per tutti”. Per motivi di lavoro esamino con una certa continuità la contrattazione nazionale e aziendale. Non ricordo di avere visto, negli ultimi quindici anni, contrattazione sugli specifici ambienti di lavoro. Anzi, non conosco piattaforme rivendicative che, magari utilizzando i dati raccolti dai RLS, pretendano cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. Sono state prodotte montagne di accordi sui premi di produzione, sugli straordinari e, purtroppo, sulla cassa integrazione, ma della concreta salute dei lavoratori all’interno del concreto stabilimento non si parla mai.

Viene da chiedersi: ma i RLS funzionano? E’ possibile che non rilevino mai preventivamente che le cose non funzionano e che la produzione è potenzialmente o attualmente pericolosa?
Oppure vi è un difetto nella comunicazione tra RLS e organizzazioni sindacali in conseguenza del quale le esigenze di sicurezza non divengono mai piattaforma rivendicativa? Oppure ancora, vi è uno scambio tacito tra imprese e organizzazioni sindacali e il tema della sicurezza viene, di fatto, delegato all’impresa per evitare ripercussioni sul tema, dannatamente bisognoso di intervento, del salario?

Voglio fare un esempio. Nel nostro sistema legale esiste, per l’imprenditore, un obbligo di “rendere edotto” ogni singolo lavoratore dei rischi specifici della lavorazione.
Tale obbligo è largamente evaso. E’ fantascientifico immaginare di renderlo effettivo?
Perché non è possibile immaginare una unità produttiva in cui al singolo lavoratore venga consegnato uno scritto, aggiornato per lo meno ogni sei mesi, in cui siano elencati, con la responsabilità dell’azienda e con formulazioni chiare, i rischi concreti cui è esposto nell’ambiente di lavoro e nella specifica mansione? Perché non è possibile organizzare una formazione obbligatoria, per lo meno di otto ore l’anno, per ogni lavoratore, con la partecipazione, se necessario, dei tecnici di cui all’art 9 dello statuto dei lavoratori, esclusivamente destinata alla sicurezza?

Sono convinto che, se ad ogni lavoratore esposto a rischio cancerogeni, fosse stata fornita adeguata informazione scritta al riguardo, sarebbero morti alcune migliaia di lavoratori in meno.
E invece, per fare il solito esempio dell’amianto, non mi risulta che nessun imprenditore, pubblico o privato, abbia mai anche solo parlato ai lavoratori interessati del rischio cancro.
E, conseguentemente, nessuno abbia mai anche solo accennato, ad esempio, all’effetto sinergico tra amianto e fumo di sigaretta nel carcinoma polmonare. Nel senso che i due agenti congiunti moltiplicano per 150 le probabilità di contrarre la patologia. Quanti morti hanno “sulla coscienza” questi signori?

A sentirli in sede processuale quasi nessuno. In giudizio, quando questo si celebra; combattono come leoni per dimostrare che il lavoratore, con il “fumo voluttuario”, si è creato da solo il problema. Io tenderei ad escludere che, sul piano generale, un lavoratore effettivamente cosciente dei concreti rischi che corre, non faccia nulla, sia a livello rivendicativo che personale per annullare o perlomeno ridurre tale rischio. Il fatto è che tale coscienza manca. I lavoratori in questione non sono stati messi, volontariamente dall’imprenditore , in condizione di porsi il problema. La responsabilità per tale situazione è distribuita su molti. Oltre all’azione del sindacato, risulta assolutamente carente, forse dolosamente carente, l’azione degli organi pubblici destinati ai controlli.

Abbiamo potuto leggere pochi giorni fa che il responsabile dei controlli che si è recato alla Thyssen Krupp pochi mesi prima che si verificasse la mattanza non era mai entrato – lo ha dichiarato lui alla commissione parlamentare di inchiesta - in uno stabilimento di laminazione.
Le indagini condotte successivamente –parlo della indagini svolte tra i lavoratori direttamente da chi si occupa del caso, i risultati di quelle della Procura si conosceranno tra breve- hanno evidenziato una situazione di grave e generalizzato pericolo, conseguente all’assenza pressoché totale di manutenzione preventiva su impianti complessi e di grandi dimensioni fatti funzionare, nell’ultimo anno, da lavoratori sempre meno numerosi e spesso non esperti che operavano, da ultimo, con orari di lavoro protratti oltre ogni ragionevole limite.

Come se ne sono resi conto i lavoratori poteva, o meglio doveva, rendersene conto chi era responsabile dei controlli. O no? Oggi molto si dice circa l’insufficiente numero di ispettori. Il problema esiste, ma non è l’unico. Se è vero che per controllare tutte le imprese con l’organico ispettivo attuale sarebbero necessari circa 30 anni, è anche vero che assai raramente i controlli che vengono effettuati portano a contestazioni di violazioni realmente importanti e, quindi, costose per le imprese. Di ciò abbiamo un riscontro indiretto in sede giudiziaria.

Il nostro sistema penale punisce l’imprenditore per l’omissione o la rimozione delle misure di sicurezza sul lavoro e ciò indipendentemente dal fatto che si verifichi l’evento infortunio o malattia professionale. Anche in una sede giudiziaria come quella torinese, sicuramente la più sensibile, nel nostro paese a queste tematiche, però, la stragrande maggioranza dei procedimenti penali riguarda casi di infortuni a malattie già verificatisi e raramente vi sono procedimenti che anticipano gli eventi mortali o lesivi. Ciò significa che le notizie relative alla pericolosità degli ambienti di lavoro tendono a non affluire alla Procura.

Vi è perciò una responsabilità, per lo meno oggettiva, dei soggetti incaricati dei controlli e, anche se in misura minore, delle organizzazioni sindacali. Chiunque abbia parlato con lavoratori dell’industria sa che i preavvisi alle aziende circa le ispezioni imminenti, le ispezioni “miopi” circa le inadempienze e i rischi gravi e, magari, occhiute circa l’altezza da terra dei lavandini, le ispezioni effettuate o dirette da soggetti che svolgono anche attività privata di consulenza per le imprese non sono una leggenda metropolitana, ma rappresentano la maggioranza degli interventi ispettivi. Se non si affrontano i problemi per quelli che sono difficilmente li si può risolvere.

Agli incaricati delle ispezioni (e ai loro dirigenti) deve essere vietata qualsiasi attività di consulenza per le imprese. Deve essere introdotto l’obbligo per gli ispettori, con relativa sanzione, di ascoltare sempre e riservatamente i RLS e i lavoratori che operano sugli impianti, garantendo l’anonimato di questi ultimi. I responsabili degli uffici devono sempre controfirmare, assumendosene le responsabilità anche penali, i verbali ispettivi.

Deve essere garantita la competenza professionale degli ispettori per giungere ad un utilizzo “mirato” di più soggetti esperti in diverse materie contemporaneamente sulla stessa unità produttiva. Solo assumendo misure di questo tipo ha un senso parlare di ampliamento degli organici delle strutture ispettive, con la speranza di evitare la costruzione di un altro mostro, come talvolta pare essere l’Inail, non in grado di vigilare concretamente sulle condizioni di lavoro malgrado le ampie risorse disponibili.

Da un altro punto di vista la carenza di segnalazioni alla magistratura relativamente alle situazioni di pericolo prima che si verifichino gli infortuni e le malattie professionali introduce un diverso profilo del problema. Le Procure della Repubblica sono sempre tutte sensibili alle tematiche del lavoro e sono tecnicamente attrezzate per affrontare questo tipo di indagine?
A vedere le statistiche parrebbe che l’area torinese sia la più pericolosa per chi lavora.
Solo qui i processi così spesso affrontano il problema dei cancerogeni; solo qui pare esservi stato ad un notevole livello di generalizzazione il fenomeno delle malattie da sforzo ripetuto; solo qui pare essere stata vista la utilità di costituire, in Procura, un gruppo di magistrati specializzati su queste tematiche; solo qui si è sentita la necessità di istituire, per i medici che diagnosticano certi tipi di patologie, un obbligo di segnalazione.

Per usare il solito caso, veramente paradigmatico, dell’amianto:
Perché a Monfalcone malgrado le centinaia di casi di mesotelioma e altre patologie dell’amianto tra i cantieristi – le navi venivano coibentate con centinaia di tonnellate di amianto - la Procura non ha mai concluso un’inchiesta? Perché la Procura di Casale Monferrato ha, per anni, archiviato le denunce dichiarando che “era impossibile individuare i responsabili”?
Perché a Bagnoli, sede di uno stabilimento Eternit, la Procura non si è mai neppure accorta delle malattie professionali e delle morti da amianto?

I motivi di queste carenze sono diversi ma, sicuramente, il risultato è che questi processi non si fanno, le vittime non vengono risarcite, le imprese “risparmiano” miliardi di euro e si diffonde quel senso di impunità che, particolarmente tra i ricchi, è oggi in Italia una sorta di status symbol. Intervenire su questo terreno è sicuramente più difficile che sugli altri.

Il dott. Guariniello ha recentemente proposto la costituzione di un gruppo nazionale, sul modello delle “super procure” anti criminalità organizzata, di magistrati che coordinino e supportino le indagini. La proposta è sicuramente utile: uno (ma non l’unico) dei limiti alle indagini è sicuramente rappresentato dalle difficoltà che incontra il Procuratore di una sede giudiziaria non grande a mettere assieme le risorse tecniche e umane per indagini spesso molto lunghe e complesse che richiedono l’intervento di pool di competenze diverse (medici, epidemiologi, statistici, commercialisti, tecnici della produzione ecc.).

Spesso, inoltre, si rischia che in diverse parti d’Italia vengano avviate indagini analoghe sugli stessi temi con duplicazione di attività assolutamente inutili. La Francia sta sperimentando, mi pare con buoni risultati, per quanto riguarda l’amianto, la costituzione di un unico ufficio di indagini centralizzato a Parigi.

Resta in ogni caso aperto il problema della insufficiente sensibilità di troppe sedi giudiziarie per i problemi della salute dei lavoratori. Magistratura Democratica ha proposto la istituzione di iniziative specifiche di formazione per i magistrati. Anche questa proposta mi pare sicuramente utile. Se, però, gli operai resteranno “invisibili” come soggetto sociale è assai difficile che cresca la sensibilità delle Procure nei loro confronti. Da questo punto di vista solo un impegno continuo di tutte le associazioni sindacali che, ascoltati attentamente i lavoratori, propongano a livello pubblico e quindi anche alla magistratura temi specifici della sicurezza, individuati azienda per azienda, può garantire l’uscita dei lavoratori da questo limbo. Altrimenti dovremo rassegnarci a continuare a vergognarci ogni volta che Montezemolo o il papa affronteranno questi temi.

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